AldoGiannuli.italdo@aldogiannuli.itPuntuale arriva il downgrade dell’Europa
Qualche tempo fa, si sviluppò (anche su questo sito) un dibattito sulle ragioni della crisi che aveva investito l’Europa e sulla possibilità che essa fosse frutto di una qualche manovra coperta. Ora dobbiamo fare i conti con questa mossa di S&P che declassa nove paesi dell’Eurozona (Austria, Italia, Spagna, Francia, Spagna, Slovenia, Slovacchia, Cipro, Malta, Portogallo) su diciassette -mentre la Grecia è già al penultimo gradino della scala- e proprio mentre il mercato finanziario europeo accennava a riprendersi. Facciamo innanzitutto una premessa: togliamo di mezzo la solita polemica cretina sui “complotti”, fra chi dice che c’è un complotto e chi dice di non credere ai complotti. E’ un piano avvilente di discorso che rifiutiamo: complotto è una categoria interpretativa da bar dello sport, tanto se chi la usa vuol spiegare qualcosa, quanto se vuol negare che la spiegazione sia quella. Il problema, impostato correttamente, si pone in questi termini: tanto nella vita individuale, quanto in quella politica o finanziaria, ci sono azioni evidenti (cioè, delle quali si conosce subito l’autore, la natura, gli scopi ecc.) quanto azioni in tutto o in parte coperte, ciascuna delle quali assume un nome in riferimento alla sua natura. Se il signor Rossi incontra clandestinamente la signorina Bianchi e non lo dice alla moglie, non sta “facendo un complotto”, ma un “adulterio” che, di solito, non si racconta alla moglie. Se un determinato soggetto finanziario sta rastrellando sottobanco le azioni di una determinata società, non si tratta di un complotto ma di una “scalata ostile”. Nel nostro caso, dobbiamo capire di cosa stiamo parlando ed, in particolare, se siamo in presenza di una “guerra finanziaria” e, nel caso positivo, che caratteristiche ed attori abbia.
Abbiamo tre possibilità:
a- la crisi è frutto della disaffezione dei “mercati”, intendendo per essi una indistinta massa molto numerosa di investitori che, (indipendentemente l’uno dall’altro) si stanno ritirando dai bond europei o per timore di subire perdite o sperando di fare più lauti guadagni speculando sulla loro crisi. In questo caso parleremo di una generica “ondata speculativa” o di “fuga dal rischio”
b- la crisi è il prodotto dell’azione di pochi soggetti dotati di forte massa critica (i maggiori fra hedge fundd e banche d’affari, agenzie di rating ecc.) che, in accordo fra loro, stanno operando per colpire i paesi dell’Eurozona e conseguire non solo forti guadagni, ma anche una sostanziale modifica degli equilibri di forza nel mondo finanziario. In questo caso parleremmo di una grande “operazione speculativa” e non di una ondata, proprio perchè si tratterebbe dell’opera di pochi soggetti in accordo fra loro e non della confluenza spontanea di moltissimi
c- la crisi è il prodotto dell’azione convergente (se non proprio concordata) fra grandi soggetti finanziari e qualche grande potenza statuale per ottenere effetti sia finanziari -come quelli appena descritti- che politici (fine dell’Euro e, di conseguenza, della Ue). In questo caso parleremmo di “guerra finanziaria” in senso proprio, in quanto orientata ad ottenere effetti strategici attraverso l’azione sul debito.
La prima spiegazione viene normalmente argomentata riproponendo le teorie sulla efficienza dei mercati (che non sarebbero manipolabili a piacimento, in quanto ogni azione causerebbe una reazione di segno contrario, che riporterebbe la situazione in equilibrio), pertanto, la cura da adottare sarebbe quella di recuperare la fiducia degli investitori, offrendo loro maggiore convenienza a tornare sui propri titoli. Ovviamente, questa tesi non è dimostrabile, se non stabilendo con certezza che il ritiro dall’investimento europeo è fatto da milioni di piccoli investitori non organizzati e non organizzabili, il che è praticamente impossibile da fare, per cui resta solo da interpretare i segnali indiretti che vengono dal mercato. Un simile movimento finanziario difficilmente potrebbe procedere con una tempistica regolare e tempestiva: le ondate spontanee sul mercato di solito procedono in modo discontinuo e sfasato rispetto ad un disegno strategico, anzi, di solito segnalano sempre qualche ritardo su quello che “sarebbe opportuno fare” –dovuto ai tempi richiesti dalla percezione- oppure hanno un andamento in crescendo esponenziale, come è tipico delle ondate di panico.
Non sembra che sia questo l’andamento della crisi. Certamente non è affatto escluso che al movimento di “ritiro dal rischio” partecipino anche moltissimi piccoli investitori, ma è da comprendere quanto questo sia determinato dall’”istinto gregario” che qualcuno sta sfruttando.
La seconda spiegazione si basa sull’osservazione empirica di diversi comportamenti di alcuni grandi soggetti di Wall Street (ad esempio, la lettera “riservata” di Goldman Sachs ai suoi clienti che sconsigliava l’investimento in titoli europei, finita “per errore” sui giornali) cui si accompagna l’analisi del comportamento delle agenzie di rating, straordinariamente tempestivo nel soffocare ogni accenno di ripresa delle borse europee con miratissimi downgrade annunciati –ancor prima che essere decisi- in modo da aumentarne l’impatto sul mercato: un vero plotone di esecuzione.
Ed il sospetto (si badi: “sospetto”, non “certezza”) si rafforza se usiamo come cartina di tornasole il caso inglese: l’Uk ha un debito aggregato al 245% del Pil ed è al terzo posto in Europa, dopo Grecia e Portogallo, precedendo la Spagna e di molte lunghezze la Francia; ha un debito pubblico all’80% del Pil (maggiore di quello di paesi declassati come l’Austria o la Spagna), ha una bilancia commerciale che non sta messa meglio di quasi tutti i paesi dell’Eurozona, un Pil che per il 45% è fatto dalle banche (che non hanno una situazione più brillante di quelle di molti paesi dell’Eurozona), un sistema industriale a pezzi ed un governo abbastanza fragile. Eppure le agenzie di rating non hanno dubbi ad assegnare la tripla A al paese della Sterlina. D’altra parte, sappiamo che la City è in provincia di Wall Street…
Per essere certi che si tratti di una manovra concertata fra i grandi della finanza americana, dovremmo avere dati non disponibili: quanti titoli europei sono stati venduti da queste banche e quanti di essi allo scoperto? Quante volte esse hanno dovuto fare ricorso allo short selling per i titoli europei in generale ed italiani in particolare? Ma, questi dati sono in possesso di quelle stesse banche che non ce li faranno mai vedere. Tuttavia, se la “pistola fumante” non c’è (ed in questi casi è assurdo aspettarsi di trovarla) di indizi ce ne sono in abbondanza. Dunque, abbiamo buona probabilità di avvicinarci alla verità seguendo questa pista. E se si trattasse di una “operazione speculativa” la cura da seguire sarebbe quella dell’acquisto di titoli di debito dei paesi Eurozona da parte della Bce, emettendo tutta la liquidità necessaria -sempre che i tedeschi se ne convincano- così da rovesciare l’operazione addosso ai suoi promotori. Ad esempio, questo potrebbe scoraggiare massicce vendite allo scoperto che puntino al ribasso.
Più scivoloso si fa il terreno della terza ipotesi, cioè se insieme ad obiettivi e soggetti di natura finanziaria ce ne siano anche di natura politica. Per parlare fuori dei denti, se l’amministrazione Usa sia della partita. Qui le prove ancora più difficili da conseguire (pare che non ci facciano assistere, neanche se lo chiediamo, alle riunioni del National Security Council).
Non resta che partire da alcuni dati e ragionarci su. In primo luogo, non è un mistero che gli Usa hanno sempre guardato con molto diffidenza all’Euro ed al suo tentativo di scalzare il dollaro o, almeno, affiancarlo. Il che, peraltro, è perfettamente legittimo, considerando il loro punto di vista.
E non è neppure un mistero che gli Usa abbiano sempre guardato con molta sufficienza alla Ue e, talvolta, con vivissima irritazione a quelli che, ai loro occhi, erano “colpi di testa” di francesi e tedeschi che si desolidarizzavano dalle imprese americane in Medio Oriente.
In terzo luogo, è difficile pensare che al default di alcuni paesi europei (e dell’Italia in particolare) non faccia seguito il collasso dell’Euro e che, a questo, non succeda la dissoluzione della Ue: una catena di nessi causali altamente probabile.
Possiamo già porci una prima domanda: è possibile che il governo degli Usa non abbia previsto o preso in considerazione una simile eventualità? Non è possibile. Di conseguenza, appare chiaro che questo accade quantomeno con la sua acquiescienza. Diversamente, Washington potrebbe azionare misure di contrasto (acquisto di titoli Eurozona a sostegno, moral suasion verso le banche del proprio paese che hanno appena fatto rifornimento di liquidità a buon mercato dalla Fed, pressione sulle agenzie di rating, come è accaduto per il declassamento dei titoli Usa ecc.). Dunque, difficile immaginare una estraneità della Casa Bianca all’operazione di cui si sospetta Wall Street, quantomeno in termini di “volontà permissiva”.
Ma con quali obiettivi? Un primo scopo immediato può essere rintracciato proprio nella situazione finanziaria degli Usa: a settembre la situazione appariva molto compromessa, con il fresco declassamento operato da S&P e dopo la sofferta vicenda dell’innalzamento del tetto di debito; poi si è profilata una ripresa ancora embrionale con una limitata crescita occupazionale dopo diversi anni; ora si prospetta un anno molto difficile in cui occorrerà rifinanziare a livello mondiale titoli per 11.000 miliardi di dollari e si sa che, probabilmente, una parte resterà non soddisfatta. In questo contesto, presentare i titoli americani come molto più sicuri di quelli Eurozona (anche se meno remunerativi di essi), non è cosa ininfluente ai fini del chi resterà col cerino in mano. E questo, per un Presidente sotto elezioni, è manna dal cielo.
Ma c’è un’altro possibile disegno: una disgregazione dell’Eurozona –e della Ue- sarebbe anche una riduzione di complessità dell’ordine mondiale, in un momento in cui si stenta a definirne uno nuovo e durevole.
E’ un discorso che occorrerà riprendere. Ma se la spiegazione della crisi fosse questa la cura dovrebbe essere un’altra: raccogliere il guanto e rispondere sullo stesso piano. Ad esempio: le banche centrali Eurozona (come molte delle maggiori banche private) possiedono ingenti quantità di Bond Usa, che potrebbero vendere sul mercato (o non rinnovare quelli in scadenza) per finanziare il ritiro dal mercato dei titoli pubblici Eurozona.
Ma nessuno sembra prendere minimamente in considerazione una idea che implicherebbe molto coraggio politico. Molto più di quello che hanno statisti e banchieri d’Europa. E poi, chi dovrebbe coordinare questa azione: l’ex advisors della Goldman Sachs Mario Draghi?
Aldo GIANNULI
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